INTRO
Corre l’anno del Signore 2006 (o 14 avanti Covid) nella città di Göteborg, Svezia sudoccidentale. Ormai orfani di Tompa Lindberg, tra le altre cose vocalista dei deathsters At the Gates, i crust/d-beaters Skitsystem ci consegnano il loro terzo (e, allo stato attuale delle cose, ultimo) full-length album Stigmata, un disco che ha un significato che va molto aldilà del suo status di pilastro del punk estremo scandinavo. Stigmata è una sequenza di pietre che ci colpiscono simultaneamente alla fronte e allo stomaco nel disperato, forse anche utopistico intento di scaraventarci a terra, farci cadere dalle sedie e dai divani, svegliandoci dal torpore da “immagine, schermo, visione di progresso; immagini, schermo, riflessi di regresso” (Rudy Medea dixit) a cui da tempo immemore sono assuefatte le nostre coscienze. Sia chiaro, non è del tutto una novità: gli Skitsystem non ci sono mai andati per il sottile, hanno sempre dispensato colpi tremendi in molteplici direzioni con estrema efferatezza ma in maniera in qualche modo unica, in grado di farli emergere dal calderone generale della musica estrema. Limitandoci agli LP, Grå Värld / Svarta Tankar (‘Mondo Grigio / Pensieri Neri’) del 1999, registrato con l’aiuto del compianto Mieszko dei grindcorers Nasum, già rappresenta un atto di aggressione e accusa d’impatto straordinario, con il suo incedere ripetitivo, radicato nel d-beat britannico degli anni 80 di gruppi come Discharge e The Varukers, ma portatata a estreme conseguenze seguendo anche la scia di gruppi crust come i Doom e allo stesso tempo appesantito da atmosfere gravi mutuate dal death metal svedese dei primi anni 90, stemperato solamente da alcuni assoli più tipicamente hard rock. Il successivo Enkel Resa till Rännstenen (‘Viaggio di Sola Andata per la Fogna’) mostra alcune differenze stilistiche, alzando la posta in termini di aggressività, con ritmi più veloci, un riffing diretto e abrasivo, con un vocalismo ulteriormente esacerbato: in alcuni frangenti, il livello di odio e disperazione arriva a strizzare furtivamente l’occhio al grindcore. Stigmata, però, arriva per lasciare un segno diverso. E allora mi propongo di farvi da guida in questo viaggio, dove ci imbarcheremo consapevoli che questa non sarà una vacanza, ma un viaggio nel senso originale di “tripalium”: qui non si gioca a biliardo su una nave da crociera, qui si soffre affrontando realtà che non ci piacciono, ci si barcamena sulle acque dell’Acheronte per raggiungere l’Oracolo dei Morti. Sfortunatamente per noi, non c’è nulla di ultraterreno in questa storia.
IL DISCO
Quando intervistai il membro fondatore Fred (chitarra e voce) per Stigma nel 2015, testimoniò che quelli furono anni turbolenti per i membri della band, caratterizzati da abuso di alcool e droghe e problemi di salute mentale. Beh, questo genere di cose possono senz’altro essere fonte di una serie pressoché infinita di problemi ma forse, almeno alcune volte, nei rari momenti di lucidità possono permettere di vedere qualcosa in più degli altri, almeno per gli individui dotati di una spiccata sensibilità. La creatività degli Skitsystem probabilmente raggiunge il suo apice in quel periodo, complice l’ingresso nella band del chitarrista Micke Kijellman degli immensi Martyrdöd, che permette al gruppo di provare nuove soluzioni. Rispetto ai dischi precedenti, il sound della band vira verso toni più oscuri, si accentuano le influenze death metal, entrano in gioco anche elementi black metal, a interagire con la classica base crust/d-beat. Restano i soli, immancabili, assoli di chitarra rock’n’roll ad alleggerire (raramente) la tensione. Il risultato di questo cocktail incendiario è un disco che trasuda pessimismo, rabbia e rancore, che trasforma in onde sonore una prospettiva più oscura e nichilista anche dal punto di vista lirico. Considererò la musica nello specifico tra poco, ma cominciamo dall’artwork di Alf Svensson (ex-chitarrista degli At the Gates), perché lì c’è già tutta l’essenza di Stigmata: una giovane donna, emaciata, smunta, rannicchiata su un pavimento di assi di legno infierisce sulle sue braccia con una lama; i suoi grandi occhi incavati guardano verso l’alto, il suo volto ossuto si contrae in un’espressione disperata che ci guarda direttamente con aria che pare implorante, implorante un aiuto che nemmeno lei sembra sapere bene che forma possa assumere. Mentre le sue braccia sanguinano copiosamente, alle sue spalle, uno sfondo nero, cupo, da cui emergono forme dai connotati ambigui: c’è del fumo nella stanza? O è l’incedere più ambiguo di nuvole minacciose verso la povera, derelitta creatura? Non servono invenzioni soprannaturali, i mostri hanno le sembianze della realtà quotidiana. La copertina di Stigmata è inquietante, la vittima stessa è inquietante, mentre il carnefice non si può vedere perché è simultaneamente dentro la sua testa e fuori dalla stanza. Il torturatore, l’aguzzino ha preso dimora lì ma, al contrario di quanto ci piacerebbe credere, difficilmente si è auto-generato in loco. Pare più plausibile che sia una creazione collettiva dell’acefala orda assassina travestita da festa in maschera dalla cangiante modalità analogica/digitale, dove a primeggiare per autenticità e innocenza è paradossalmente la stessa maschera, inanimato emblema dell’evento. Sventurati compagni di viaggio, traccia dopo traccia, è tempo di percorrere l’incubo per intero. Dal tunnel ne usciremo e saremo un po’ più vivi... Oppure un po’ più morti, a seconda di quanta attenzione saremo stati in grado di prestare. Benvenuti all’inferno quindi, benvenuti sulla Terra, benvenuti nel secolo XXI, benvenuti nella nostra/vostra coscienza, a voi che invece di voltarvi avrete il coraggio di guardare
TRACK BY TRACK
01. Apokalypsen Svarta Änglar (“Gli Angeli Neri dell’Apocalisse’). Si parte, il primo brano unisce lo scandicrust di fine anni 90 all’asfitticità del black/death svedese: le due chitarre macinano riff crudi, violenti e oscuri, mentre le ritmiche non divergono molto dal d-beat tipico della tradizione del 1982 britannico. Si nota un certo rallentamento nei ritmi rispetto all’album precedente. In un certo senso, questa traccia è sorella minore del vecchio brano Skrivet i Blod, Ristat i Sten (‘Scritto nel Sangue, Scolpito nella Pietra’), vero e proprio inno del combo di Göteborg. Tuttavia, qui la doppia voce di Fred e Alex (quest’ultimo a sostituire Tompa) è più acuta e violenta, meno monotonica e più tagliente. Smorza leggermente la tensione il classico breve assolo rock’n’roll, ma il brano si chiude con un vocalismo sempre più disperato e nichilista a concludere la prima tappa del percorso. È tuttavia dal punto di vista lirico che gli Skitsystem ci mettono qui con le spalle al muro: si fa sera, escono dalle fabbriche i lavoratori manuali costretti a turni di lavoro massacranti per dei compensi ridicoli. Lavorano come ingranaggi, diventano loro stessi ingranaggi, la loro umanità viene dimenticata. I sobborghi si popolano di vacche da mungere, risorse da spremere. La società non solo li ignora, arriva a evitarli e disprezzarli: nel nostro delirio elitista e consumista, idolatriamo i risultati delle loro lunghe giornate senza gioia, mentre neghiamo il valore delle loro vite. Li priviamo della loro umanità, riducendoli a macchine da produzione e, così facendo, perdiamo anche la nostra, trasformandoci in automi da consumo: noi sacrifichiamo le loro esistenze al vitello d’oro del prodotto e lo facciamo per il guadagno di chi, mettendoci o meno il volto, tira dall’alto i fili invisibili che fanno muovere il teatrino. Disumanizzati loro, disumanizzati noi.
02. Våld (‘Violenza’). Il secondo brano è un’aggressione molto breve, una sorta di concentrato che, pur utilizzando le strutture classiche del crust punk, c’è sempre tanto d-beat inglese nelle ritmiche, il sound sporco delle chitarre però si fa più cupo e oscuro, la tensione rimane alta anche quando influenze death’n’roll dovrebbero sulla carta stemperarle. Gli assoli rendono il brano più dinamico e meno monotonico ma non meno pesante. Le grida disperate di Fred e Alex ci vomitano ripetitivamente addosso i pochi versi di cui si compone la canzone, il cui testo affronta il tema della sproporzione (o, forse, della proporzione inversa) tra il crimine commesso e la punizione ricevuta, in termini di brutalità della risposta poliziesca. Lungi dall’essere un’apologia del reato, si tratta di una denuncia delle angherie fisiche e psicologiche inferte dalla polizia svedese quando a infrangere la legge sono i membri delle fasce più deboli della popolazione, in un sistema in cui la corruzione ai vertici rimane costantemente impunita. Noi siamo innocenti? In fondo, no. Tutto sommato, riusciamo a tollerare la violenza politica, economico-finanziaria, giuridica delle alte sfere, purché esista un certo numero di elementi a fare da parafulmine per tutti. Si tratta sempre dei più deboli, dunque così sia.
03. Stigmata (‘Stigmate’). Entrano in gioco ritmiche ben più rapide e le trame chitarristiche virano verso le tenebre prendono in prestito elementi dal death e dal black metal. Il sound si fa decisamente più oscuro e pessimista, il riffing cupo satura l’atmosfera, la musica diventa oppressiva e soffocante, mentre lo screaming diventa meno monotono, crescentemente rabbioso, superando la frontiera della disperazione. In questo brano c’è tanto crust quando metal, ma soprattutto questo brano è caos, questo brano è rabbia e dolore, questo brano è sofferenza intensa. A livello lirico, si narra la sofferenza morale dell’alto numero di giovani che arrivano a infliggersi del dolore fisico arrivando, a volte, a uccidersi. Da una parte, questo dolore è causato da abusi fisici e psicologici diretti ma dall’altra dagli standard aggressivi di una società tutt’altro che sana: la spinta osssessiva a mostrarsi sempre forti, vincenti, di successo, che incentiva la competizione e l’ostilità verso il prossimo, generando un senso d’insicurezza e, conseguentemente, malessere. Mai si dovrebbe dimenticare che procurarsi dolore fisico non è sintomo di un’intrinseca follia; al contrario, spesso ha la sola funzione di distrarre la persona da una sofferenza psicologica ormai divenuta insopportabile.
04. Hat, Klass & Rang (‘Odio, Classe e Status’). Apre un suono cupo di chitarre, che subito sfociano in una trama crust/d-beat relativamente classica, con ritmiche incalzanti e ripetitive, ma in cui presto si inseriscono elementi death metal, in particolare emergono in assoli che ricordano proprio gli At the Gates. Le voci si fanno qui più gravi e, a tratti, leggermente – ma solo leggermente – più gutturali, in altri momenti più urlate più tipicamente hardcore. L’ossatura crust, sempre dominante, si fonde con il metal estremo, cristallizzandosi in un gemma di rabbia sapientemente dosata. Il testo affronta un grosso male della società capitalistica: la competizione esasperata, la cattiveria, il bullismo, fenomeni diffusi nel mondo del lavoro e a livello istituzionale. Gli Skitsystem si scagliano contro il carrierismo di alcuni a scapito degli altri, ma anche contro chi abusa del prossimo o lo denigra di fronte agli altri per lenire il disagio dovuto al proprio senso d’inadeguatezza. Il mondo del lavoro è profondamente malato: una corsa dei ratti dove la vittoria non è realmente tale. Se per ottenere questa vittoria siamo disposti ad accettare di schiacciare gli altri, siamo di fronte al segnale che abbiamo perso qualcosa di molto più importante.
05. Min Borg av Hud (‘Il Mio Castello di Carne’). Riff in stile crust britannico aprono questo brano, uno dei più diretti dell’album. Qui è l’influenza dei Doom che si fa sentire in maniera predominante, sia nei riff sia nel vocalismo deciso e perentorio. Tuttavia, credo di non andare tanto lontano dal bersaglio se dico che si sentono echi anche di Agnostic Front e Slayer, soprattutto nelle ritmiche, mentre echi del death svedese anni 90 emergono sempre negli assoli. Questo è un brano in cui le grida si fanno meno disperate e più monolitiche e decise, la rabbia prevale sul dolore. Come per ammissione della stessa band, questa canzone è concettualmente sorella della title-track: qui si affronta il tema dei disordini alimentari, messi in relazione al modo in cui la società promuove canoni di bellezza estremizzati. Si parla dei modelli offerti dai mezzi di comunicazione, ma il discorso in realtà va ben aldilà: certi fenomeni non li ha inventati la televisione e, poiché l’album è stato composto nel 2005, certamente non si può utilizzare il capro espiatorio dei social media. La promozione d’idee distorte sul corpo umano vengono promosse da molto, molto tempo. Anche in questo caso, il marcio della nostra società parte da lontano.
06. Blodskam (letteralmente ‘Vergogna di Sangue’, termine arcaico rimasto nel lessico giuridico svedese per riferirsi all’incesto). Qui si apre con un riff dalle forti tinte death/black metal, a cui fanno da contraltare ritmiche d-beat/crust piuttosto tradizionali. La voce torna a essere gridata in una direzione decisamente hardcore: gridate in modo rabbioso ma anche disperato soprattutto nel ritornello. Molto convincente, un’altra volta, l’inserimento di questi elementi metal estremo nello scheletro crust del sound del combo svedese, che aggiungono elementi di ulteriore inquietudine, rendendo più vario e dinamico il brano. Il testo denuncia un fenomeno di cui si parla meno spesso di quanto si dovrebbe: la violenza sessuale all’interno della famiglia. Basandosi sulle testimonianze di una vittima, gli Skitsystem ci mettono di fronte al trauma fisico e psicologico di bambini e bambine che subiscono questo genere di angherie, il segno che rimane per sempre dentro di loro: l’esperienza tattile, visiva, uditiva ma anche olfattiva e gustativa. La sofferenza emotiva e le conseguenze psicologiche, in tutti gli stadi della vita. Queste cose succedono ancora. Queste cose succedono intorno a noi, anche nell’‘avanzato’ mondo occidentale, anche nei Paesi spesso elogiati per il loro livello di civiltà, per la qualità della vita, per lo stato sociale: per inerzia, si tende a pensare il contrario, ma gli Skitsystem ci ricordano quanto marcio ci sia anche in Scandinavia.
07. Det Samvetslösa Hatete Plågor (‘La Sofferenza dell’Odio Cosciente’). Il brano attacca con un crust/d-beat cupo, non particolarmente veloce, a tratti anzi quasi mid-tempo, che un’altra volta paga tributo a gruppi come Discharge e Doom. La voce torna a farsi monolitica, urlata, grave, sporca, sofferente e carica d’odio, le chitarre si assumono ogni tanto connotati death metal vagamente Morbid Angel, mentre l’incalzare di basso e batteria non lascia tregua: non è veloce, ma è perentorio, ripetitivo e quasi ipnotico. Il matrimonio tra crust/d-beat e death metal vince e convince ancora. Nella migliore tradizione dell’hardcore estremo, anche questo brano termina bruscamente. Il testo affronta un tema a distanza di ben quindici anni ancora attuale e controverso: qual è la vera natura dell’Unione Europea? I governi dell’UE spingono verso una limitazione dell’immigrazione, adottando a volte politiche xenofobe. Andiamo verso la deriva di una Festung Europa? Favoriamo la circolazione tra cittadini dei diversi Paesi dell’Unione a scapito di chi arriva da Paesi e continenti meno favoriti? Si va verso una centralizzazione dei poteri a scapito delle democrazie nazionali (ammesso che esse esistano)? Che cos’è l’UE, per davvero? La risposta non è banale, ma di certo non pare una missione umanitaria.
08. Den Mörka Floden i Vårt Hjärta (‘Il Fiume Oscuro nei Nostri Cuori’). Questo brano torna su stilemi classici del crust/d-beat, direi addirittura alle radici di stampo Discharge/The Varukers, con ritmiche e riff ripetitivi, monotonici, sovrastati da voci gridate, lacerate, disperate, con Fred e Alex che a volte si sovrappongono, altre si alternano nel loro vocalismo furioso. Ritorna un gran bell’assolo rock’n’roll a stemperare leggermente la tensione, prima di rituffarsi in un calderone crust che non sarebbe stato fuori posto nemmeno in Grå Värld / Svarta Tankar. Dal punto di vista lirico, la band tratta il tema del picco in crimini violenti commessi da pazienti ricoverati in ospedali psichiatrici. Si punta il dito sul governo svedese e la sua incapacità di riconoscere la malattia mentale come malattia anziché condannarla come una vergogna. Gli Skitsystem si domandano che cosa davvero separi i ‘sani’ dai ‘malati’, sottolineando come la pressione sull’individuo nella società del secolo XXI non faccia che favorire l’emergere di problemi psichici. Quanto sani siamo davvero? Un’altra volta, il combo torna sulle piaghe del ricco Paese scandinavo, aldilà della facciata di società virtuosa ed egualitaria.
09. Öppen Grav (‘Tomba Aperta’). Si ripete grosso modo lo schema del brano precedente, ma aumenta la furia. La canzone è un po’ più veloce, segue lo stile del crust anni ’80-‘90 pescando sia dalla madrepatria (Wolfbrigade su tutti, direi) sia dalla Gran Bretagna, le influenze metal si diradano e, soprattutto, le voci si fanno più aggressive e taglienti: scompare la disperazione ma non c’è solo rabbia, qui c’è l’intento di far del male ai nostri timpani. Il testo chiarisce quale sia la tomba aperta, ovvero il nostro mondo. Gli Skitsystem riflettono sulla quantità di sostanze contaminanti che inquinano la nostra aria, la nostra terra e le nostre acque. Quanto sono davvero sane le nostre vie respiratorie? La band svedese avverte: di questo passo, ci troveremo tutti a tossire muco nero. È questione di ‘quando’, non di ‘se’.
10. Slutstation Babylon (‘Destinazione: Babilonia’; letteralmente ‘slutstation’ sarebbe ‘stazione d’arrivo’). Un altro brano che torna al crust/d-beat picchiando di brutta maniera con ritmiche rapide e ripetitive, riff cupi e deraglianti e uno screaming lacerato e ossessivo. All’improvviso, il brano si spegne lentamente, lasciando spazio a una melodia pessimista un po’ alla maniera dei Metallica degli anni 90, che anch’essa sfuma gradatamente nel silenzio. Dal punto di vista lirico, qui si indulge un po’ negli standard classici del crust punk: un tradizionale brano contro l’avidità delle multinazionali e lo sfruttamento del lavoro. Il sistema neoliberista ha promesso molto: quanto le promesse sono state mantenute? E, soprattutto, chi è stato davvero a beneficiarne?
11. Solidaritetens Sista Utpost (‘L’Ultimo Avamposto della Solidarietà’). Meno velocità e più pesantezza in questo brano, molto crust e molto tagliente, classico d-beat drumming e riff cupi e asfittici. Le ritmiche vanno avanti a ripetersi, in maniera quasi ipnotica, mentre la voci urlate sovrastano gli strumenti alternando momenti più gravi e rabbiosi ad altri più acuti e disperati. Le chitarre continuano a sfornare trame sporche strizzando l’occhio al death metal svedese (At the Gates, ma anche Dismember). È un brano pesante, asfittico e intriso di negatività, che va di pari passo con un testo che denuncia la vittoria del carrierismo sulla solidarietà. Un’altra accusa alla società occidentale odierna e all’opportunismo che si porta dietro: si mostra solidarietà finché non ci si eleva socialmente; a quel punto si abbandonano i vecchi amici e colleghi al loro destino. Non so se il titolo voglia ammiccare al racconto ‘An Outpost of Progress’ di Joseph Conrad ma, nel caso, non sarebbe poi così fuori luogo.
12. Lepra (‘Lebbra’). Si apre qui con strutture tradizionali: durante l’intera durata del disco, il drumming si mantiene fedele al trademark degli Skitsystem. Il brano non è molto veloce, punta sulla pesantezza, ripete in parte quanto già sentito nelle canzoni precedenti ma riprende un po’ l’oscuro componente black metal che nei brani precedenti era stato messo in secondo piano. Le voci si mantengono gridate ma in questo caso si fanno più doloranti e le grida vengono trascinate un po’ più a lungo. Questa volta il brano non si interrompe bruscamente, ma si smorza per spegnersi gradatamente, sfumando senza fretta nel silenzio. Il testo affronta un altro tema importante che riguarda la società occidentale, in particolare proprio nell’Europa settentrionale: i nuovi ‘lebbrosi’. La povertà, la disoccupazione, l’impossibilità di avere un’entrata e di accedere alle risorse comporta automaticamente l’esclusione dalla società. In altre parole, se non si riesce a ottenere successo nella corsa dei ratti in un circuito chiuso, si rischia rapidamente di trovarsi in mezzo a una strada, senza nulla, circondati dal disprezzo dei propri simili. Il paradosso è che gran parte di essi rischiano di trovarsi nella stessa situazione, in una società dove la vita non ha valore intrinseco ma è valutata sulla base di fattori esterni.
COSA CI HA LASCIATO STIGMATA?
Dal punto di vista musicale, il disco mostra una band straordinariamente matura. Quanti dischi crust/d-beat si sono prodotti in Svezia negli anni 1990-2000? Non si riesce nemmeno a contarli. Non voglio dire che siano troppi, perché non credo che siano mai troppi. Tuttavia, quanti gruppi riescono ad avere un sound facilmente distinguibile come quello degli Skitsystem? Molto pochi e questo Stigmata alza la posta. Qui si mantengono le strutture che hanno da sempre caratterizzato la band di Göteborg inalterati, ma non ci si limita all’autocitazione. Come sostiene il fondatore Fred, gli Skitsystem sono una band ‘monotona’. Le strutture ritmiche spesso si ripetono in maniera ossessiva; parimenti, esistono dei riff tipicamente Skitsystem che nella durata del disco si ritrovano numerose volte. Questo, tuttavia, non esaurisce il loro sound. Si alternano influenze britanniche, influenze svedesi, influenze dalla galassia punk di tutto il mondo e anche, in maniera più marcata in questo disco, dal metal estremo. Il risultato è un disco aggressivo dall’inizio alla fine, violento, pesante, dolorante, sofferto, rabbioso, in cui ogni brano però mostra delle caratteristiche proprie che permettono al gruppo di dribblare in grande stile il rischio di venir fuori con un album piatto.
Se è vero che la ripetitività è una delle caratteristiche di base degli Skitsystem, difficilmente si può negare che sia più in generale una bandiera della galassia crust/d-beat. Quanti gruppi esistono il cui nome inizia con ‘Dis’? Disfear, Discord, Disculpa, Diskonto, etc... E, giustamente, è difficile rendere giustizia all’impatto di Hear Nothing, See Nothing, Say Nothing sulla scena. Stigmata rimane molto Discharge, Doom, Wolfbrigade, ma incorpora elementi di Dismember, At the Gates, Marduk senza limitarsi a mettere tutto nel mixer. L’interpretazione degli Skitsystem è sempre unica perché è maledettamente espressiva. La sofferenza, l’odio, la disperazione incisa nei solchi di questo vinile si vive sulla propria pelle, la puntina fa solo da medium tra il nostro stato fisico e mentale e il mondo – contemporaneamente reale e surreale – dipinto a tinte violente dalla band e incapsulato nelle tracce di questo album. Stigmata è 100% Skitsystem, ma rispetto ai dischi precedenti è più oscuro, più metal, più sofferto e disperato. È un passo ulteriore in un cammino tormentato che, sebbene non abbia più prodotto LP, continua attraverso la palude fangosa e sanguinolenta del mondo contemporaneo.
A livello concettuale, l’album stimola una serie di riflessioni sulla nostra realtà sociale che rimangono valide a distanza di quindici anni, forse perché sono davvero senza tempo. I temi affrontati nel disco sono diversi ma in fondo tutti interconnessi: il modello economico-politico-sociale in cui siamo immersi ha una serie di problemi di tipo tanto etico quanto pragmatico: la violenza, lo sfruttamento, l’emergere di valori finti che distorcono la bilancia delle priorità fino a provocare sofferenza, dolore, malattia. A loro volta, queste ultime diventano oggetto di stigma sociale, ergo di bullismo, prevaricazione, emarginazione, ulteriori sofferenze. Accettiamo la convinzione ereditata che il valore di una persona, il valore di una vita dipendano da fattori esterni a essa: le cose che fai, i risultati che ottieni, gli oggetti che possiedi, tutto è un continuum che va da successo a fallimento. Ci si misura, ci si confronta: “io sono meglio di X, Y è meglio di me”, sulla base di criteri stabiliti e imposti dall’esterno. Un sistema socioculturale chiuso in cui la tradizione da una parte e l’influsso dell’economia ultraliberista partecipano a offrire valori e criteri di valutazione, a volte convergenti, a volte contrastanti, in ogni caso poco sani, che in ogni caso favoriscono lo sviluppo di sensi d’inadeguatezza, insicurezza, scarsa fiducia in sé stessi, che poi si possono manifestare nei modi più disparati a seconda delle esperienze personali, della storia familiare, del contesto ambientale con cui ognuno di noi si trova a fare i conti.
Questo genere di situazione comunque sta all’origine di tantissima sofferenza umana ed è talmente pervasivo che è possibile ritrovarlo in pressoché tutti gli ambiti e a tutti i livelli. Per esempio, ho trovato favoloso il booklet degli olandesi Bullshit Propaganda del 1997 (split LP con i Karma) in cui si denunciava la replica dei modelli di prevaricazione, nascita di mode, affermarsi di leader e quindi rivalità e discriminazioni all’interno della scena anarcho-punk. Anche in questi ambiti che dovrebbero essere in qualche modo ribelli, penetra profondamente quella paura, quell’insicurezza, che spinge a creare maschere di aggressività dietro cui nascondere le proprie fragilità, il proprio essere vulnerabile. Qui credo si trovi una delle chiavi per capire tanti problemi del mondo: un’idea totalmente distorta, mistificante del concetto di “forza”. Non credo di avere notato solo io che una persona viene considerata “forte” quanto più reprime le emozioni e ostenta sicurezza, a volte anche cattiveria. La persona “forte” non ha mai tentennamenti, è sempre sicura di sé, non piange mai, ottiene sempre quello che vuole, etc. Questi standard del tutto irrealistici forgiati artificialmente sono incredibilmente fuorvianti, deleteri, dipingono realtà che non esistono e spingono le persone a perdere il contatto con le proprie emozioni anziché accettarle e cercare di capirle, cercando rifugio in supporti esterni di che possono prendere le forme più disparate: si va dalla ricerca di una forma fisica perfetta, all’acquisto della super macchina, al consumo di alcool, droghe, Netflix, al desiderio spasmodico di approvazione all’interno di un gruppo, alla ricerca di affermazione a scapito di altre persone, chi più nè ha più nè metta. La repressione degli stati emotivi è quanto di più lontano esista dal controllo e la stabilità e tutto questo ha degli effetti considerevoli sulla nostra salute mentale (anche se raramente ce ne accorgiamo finché la situazione non ci travolge).
Gli Skitsystem in Stigmata ci lasciano la descrizione di una serie di questioni problematiche a livello economico, politico e sociale (il punto sull’UE è particolare e lo lascio perdere perché meriterebbe una column tutta sua), offrendo anche spunti per l’interpretazione e la comprensione di questi fenomeni. In ultima analisi, a livello concettuale, il contributo di questo album è un grido di dolore che mette in guardia sulla disgregazione del collettivo umano: danneggiamo noi stessi e gli altri attraverso la comparazione e la competizione. Nella migliore delle ipotesi, abbiamo imparato a ignorare gli altri, nella peggiore, a prevaricarli. Fare del male alle altre persone diventa un mezzo per affermarsi e mettere a tacere le proprie insicurezze. Stigmatizziamo la sofferenza che vediamo nelle altre persone perché ci disturba. Sentiamo la necessità di bollare chi sta male come “debole”, “malato” o “fallito” perché ci mette di fronte a quello che cerchiamo di nascondere a noi stessi. Scappiamo dal dolore e ci sentiamo pure “forti”, “sicuri” o “di successo”. Intanto, su questo caleidoscopio di dolore c’è chi costruisce patrimoni e/o consolida posizioni di potere. La soluzione, sembrano suggerire gli Skitsystem, è risvegliare le nostre coscienze ai valori di accettazione, comprensione e solidarietà, tornare a vedere che la vita ha un valore aldilà dei curricula, dei risultati ottenuti, dei riconoscimenti, di tutte le dinamiche (spesso malate) del mondo esterno. Rompere il circolo di mutua alimentazione tra un sistema sociopolitico corrotto basato sull’interesse personale e il lato meno edificante dell’animo umano. Risvegliarsi e riuscire a vedere che quello che intrinsecamente ci unisce, in quanto esseri umani, è superiore alle costruzioni artificiali che ci dividono. Renderci conto che la ragazza sulla copertina di Stigmata siamo, anche se magari in gradi diversi, tutti noi. Solo così, accettando le nostre ferite e aiutandoci a vicenda, potremo cominciare a guarire le stigmate della società moderna. Volendo azzardare una connessione a prima vista forse sorprendente ma a mio avviso tutt’altro che balorda, in questo modo forse Stigmata lancia (inconsapevolmente) un ponte tra l’underground punk estremo e la filosofia buddhista.
Aldilà di queste osservazioni di carattere generale, torno a sottolineare l’importanza della componente territoriale. Gli Skitsystem parlano a livello generico ma prendono spunto dal contesto che vivono e quindi conoscono meglio: la Svezia. I Paesi del nord sono spesso oggetto (almeno in Italia) di stereotipi positivi: lo Stato sociale, la famosa meritocrazia scandinava, città pulite, Paesi ricchi e civili. Pur senza negare che le condizioni in Svezia si possano considerare migliori rispetto ad altri Paesi, un gruppo come gli Skitsystem ci aiuta a rimettere le cose in prospettiva. Attraverso Stigmata, vediamo come alcuni fenomeni che qui si tendono a considerare propri solo di “Paesi “disfunzionali come l’Italia” in realtà non siano affatto rari anche nelle realtà che molti di noi invidiano senza conoscere. Attraverso i suoi testi, la band testimonia direttamente alcuni problemi strutturali della società svedese: uno sfruttamento bieco della manodopera nelle fabbriche, l’intersezione tra classismo e razzismo, il bullismo nelle scuole, la sofferenza psicologica e i disordini alimentari tra i giovani, le molestie sul posto di lavoro, la violenza domestica, gli scontri tra gang, la corruzione e la criminalità organizzata, l’emarginazione del diverso, la scarsa empatia verso chi soffre di disturbi mentali, un costo della vita che rende costringe quotidianamente alla lotta per la sopravvivenza chiunque non arrivi a un salario minimo. Per chi dorme all’addiaccio e vive di elemosina, sentirsi dire che la Svezia è un Paese ricco suona come una vaga presa per il naso. Questi scenari sono confermati da un discreto numero di altri gruppi loro connazionali (Wolfbrigade, Slaganfall, Scumbrigade, Kontrovers e tanti altri). Certamente i Paesi nordici hanno un lato virtuoso e su certe cose si possono considerare all’avanguardia, ma è bene non dimenticare che esiste un rovescio della medaglia e non c’è angolo del mondo dove la vita sia solamente rosa. Anche la Scandinavia ha i suoi demoni e dischi come Stigmata servono a portarli alla luce. Benvenuti all’inferno quindi, benvenuti sulla Terra, benvenuti nel secolo XXI, benvenuti nella nostra/vostra coscienza, a voi che invece di voltarvi avete avuto il coraggio di guardare.
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